Sardegna
Di aria, cannonau e riconnessioni
Agosto, 2020
Non ci sembrava vero, di esser lì a scrollare su Booking gli alloggi più convenienti. Stati d’animo contradditori. La normalità diventata eccezione. L’insicurezza, diffusa a macchia d’olio ovunque, inculcata da chi screditava il sentirsi di nuovo bene nel prenotare un viaggio. La vergogna intimata, di esser portatore di male nel fare ciò che finalmente veniva concesso. Non era la stessa cosa, quella di sempre. Qualcosa era cambiato, a livello mondiale, a tratti in maniera irreversibile. Non avevo avuto la solita carica di adrenalina dopo quel semplice gesto, la conferma della prenotazione. Sentivo un freno indotto, non voluto. Potere è volere. Si, oggi, ma domani, tra una settimana? L’incertezza era divenuta un’aurea invisibile che copriva ogni nostra scelta. Il mostro (l’appellativo è della mia nonna e l’ho trovato infantilmente perfetto) ha tagliato gambe, polmoni e battito cardiaco a tanti, troppi. “Del doman non v’è certezza” è stato scolpito su muri, pelli, pensieri. E con placida concessione del Magnifico, aggiungerei anche una virgola e un bel vaffanculo.
Tra le mille incertezze vinse però lo sguardo giustizialista, il quale mi spinse a fottermene di ogni ulteriore giudizio: posso, ok, prenoto. Parto, forse…
Si, alla fine parto, e decido di farlo nella maniera più liberatoria possibile, on the road, noleggiando una panda e guidando alla caccia di tramonti, maialini alla brace e dell’ottimo cannonau.
Un unico dogma da seguire pedissequamente: stare all’aria aperta, il più possibile. Avere un tetto sopra la testa unicamente la notte.
Si atterra ad Alghero e da lì si riparte 20 giorni dopo. L’idea è di battere quella parte della Sardegna meno inflazionata dal turismo di massa, lontana dai nobili nomi della costa Smeralda. Improvvisare, tenendo il mare quale comun denominatore delle nostre giornate. Perché ne avevamo bisogno.
La mia intima relazione con il mare risale alla tenera età, ammesso ne abbia avuta una. Nessun episodio in particolare. Semplicemente arrivavo dinanzi a esso, e stavo bene. Il mare è sempre stato una nota positiva in una scala di eventi, più o meno belli. Era sinonimo di vacanza, gioco, spensieratezza. In maniera implicita esercitava la sua benigna influenza. Col passare degli anni ne ho colto l’inequivocabile valore. Ho iniziato a parlargli, dichiarandomi. Intimo confessore, mi accompagna e mi aiuta, mi ascolta, mi sprona. Ne ho sviluppato la necessità, anche per un breve momento. Vederlo lontano, per mesi, senza la possibilità di un fugace colloquio, mi è pesato enormemente. Così, non appena ho potuto, sono corso da lui a raccontargli tutto.
Non era il primo incontro con la Sardegna, ma a ‘sto giro avevo intenzione di viverla a fondo, a modo mio, con la stanchezza dettata dalle sveglie all’alba e numerosi chilometri macinati ogni dì. Per qualche giorno Oristano fu la nostra base. Tranquilla, e quindi perfetta per una cena all’aria aperta dopo una giornata a girovagare. Momenti di distensione lontano da frastuoni. L’inizio di una lenta riconciliazione con il mondo. Un piccolo centro storico pedonale caratterizzato da una groviglio curvilineo di strade. La giusta atmosfera per serate all’insegna di relax e buon cibo. Lunghissime passeggiate, rincasando solamente una volti cotti, quando gli occhi faticavano a rimanere aperti e le gambe presentavano il conto. Le giornate venivano contraddistinte dalla ricerca dell’acqua più cristallina, battaglia di caratura mondiale. Is Arutas, Mari Ermi, S’Archittu, San Giovanni di Sinis e via dicendo. Panorami per lo più selvaggi, privi di infrastrutture e abomini edilizi. Contatto totale con la natura. Dio quanto era mancato tutto ciò, stretti in quattro mura per mesi. Giù il finestrino, braccio fuori e aria in faccia, direzione spiaggia. La borsa frigo che saggiamente ruota inseguendo l’ombra. Libro e occhiali da battaglia abbandonati sull’asciugamano. La difficolta nell’uscire dall’acqua, talmente è trasparente, talmente faccia strano, talmente dia gioia essere lì, a ridere di come si vedano perfettamente i propri piedi. Poi via, tirar su tutto muovendo altrove, verso i vari appunti annotati prima della partenza. Giorni lenti e preziosi. Doverosa cura della mente.
Giunse però l’ora della rottura di quell’equilibrio zen. Consci della diversità che ci avrebbe accolto, si taglia l’isola e si punta verso Cagliari. Città più viva e più caotica. Spiagge più piccole e inflazionate. Salta fuori un’offerta: un piccolo prefabbricato sul terrazzo di una tizia, per pochi spicci, impossibile rifiutare.
Cagliari ha da offrire molto più che un piccolo borgo, comprese grandi sudate: dal mare sale, e poi sale, per poi arrivare alle mura del centro storico, salendo ancora. Camminammo fradici ma felici, visitando la zona del Castello, torri e cattedrale, il bastione di Saint Remy, per poi scendere nel quartiere Marina e infine attraversare quello di Villanova. Si avverte che non sia una semplice località turistica di costiera, che non sia un villaggio rurale. Cagliari è anche città, l’unica vera e propria incontrata nel nostro peregrinare. Nonostante la pezza, importante e a tratti fastidiosa, la si è preferita di giorno, anziché al calare del sole. Ragioni di calendario, forse. Sudando si, crediamo di averne colto la sua vera essenza, eterogenea. Svariate chicche che la sera inesorabilmente vengono nascoste dall’orda turistica di un qualsiasi agosto. Artigiani, laboratori locali, frammenti di vita autoctona. La bellezza di alcuni paesaggi e dell’architettura non assediati dalla caccia al selfie. Osterie e moderni bistrot accessibili senza prenotazioni di lunga data. In tema culinario qui abbiano trovato, oltre alla tradizione, un occhio strizzato al moderno, alla contaminazione, all’oriente. Innamorati della cucina sarda, ci siamo lasciati ispirare, toccando note diverse, alzandoci sempre con il sorriso.
Cagliari è stata la base per gite giornaliere a est, in blasonate spiagge, organizzate in maniera impeccabile. Porto Sa Ruxi, Punta Molentis, Porto giunco e via dicendo. Eravamo pronti a sveglie importanti e litorali invivibili. Le prime si resero necessarie, ancor più dell’immaginato. Le spiagge furono invece la lieta sorpresa. Accessi controllati e garantiti a un numero massimo, biglietto d’ingresso e parcheggio valevole per una serie di limitrofe spiagge. Servizio veloce, ineccepibile e fatture, ovunque. Roba da stropicciarsi gli occhi, per l’organizzazione, ancor prima che per la natura. Ci siamo goduti baie il cui nome risuona a latitudini ben distanti. Favole, che a malincuore la sera si lasciano alle spalle. Stupende cartoline sorprendentemente vivibili.
Cagliari e le sue spiagge non ci stufarono per niente. Ma dopo svariati giorni era giunto il momento di cambiare, di rimetterci in viaggio. Non prima della più classica delle domeniche in un agriturismo, quando al suonare della campanella gli ospiti vengono invitati a sedersi: inizia il pasto. Menu fisso, non certo parsimonioso. Appagati e gonfi puntammo verso ovest. Voglia di realtà un filo più piccole, Pula, Chia, Porto Pino. La spiaggia di Tuerredda e Piscinas. Giorni lenti e oziosi. Noi, il mare, i viveri necessari e un ombrellone. Contemplazioni silenziose. Russate clamorose. Infinite nuotate alla ricerca del pesce più grande, più colorato. Relax serale tra centri storici composti da poche vie e un’unica piazza. Osterie con sedie in legno dipinte a mano. Profumi che corrono veloci e giungono lontano. E’ stato il momento che ho ricercato e preferito. Dopo svariati mesi di reclusione, di pensieri e down emotivi, lì, ho ritrovato la magia, quella in grado di regalarti il viaggio. Ristabilita una sorta di connessione col mondo, che molto mi aveva deluso, è scoppiata nuovamente la passione, la voglia di scoperta, la gratitudine di quanto di fantastico mi sta attorno.
Eravamo tornati a ringraziare per ogni singolo gesto quotidiano. Faticavamo a dispiacerci. Il sorriso, quello vero, spontaneo, accompagnava le nostre giornate. Parecchi amici ci avevano consigliato di far tappa a Carloforte, pittoresca isola distinta per le sue connotazioni genovesi. Ubbidimmo. Intima e peculiare, ci bombardò sin dal primo momento con emozioni fortemente positive. Il suo aspetto contenuto, ben curato e coloratissimo sono stati la scoperta. Le calette paradisiache, i tramonti al faro, il tonno … Quel tonno. Ci siamo riproposti, come poche volte accade, che meriterà una seconda visita, più lunga, più confidenziale. Perché capita che si abbia voglia di ritornare dove si è stati bene, anche se il proprio dogma professa il contrario. Il mio credo imporrebbe di visitare il mondo intero prima di rimettere piede là dove sono già stato, se non per necessità sopravvenuta. Carloforte però è quel tarlo in testa, che privo di una ragione trascendentale, torna a intervalli regolari. Quel “Quasi quasi …”, quella voglia lì, di posto ideale per leggere qualche libro e scrivere all’ombra di un albero nella colorata piazza. E’ innegabile che girando il mondo ci siano luoghi che smuovano qualcosa più di altri. Senza l’obbligo di frapporre migliaia di chilometri, doppi scali e infiniti trasporti. L’isola di San Pietro è stata la normalità e l’eccezione, felice scoperta e ricordo.
Si fece fatica ad abbandonare quel dolce viavai tra il porto e il centro storico, perdersi tra i variopinti vicoli, attratti da una miriade di piccoli angoli di gioia culinaria. A malincuore muovemmo verso nord. Voglia di avventura, in chiave anni ’90. Cartelli e intuito ci avrebbero guidato sino ad Alghero, nessuna tecnologia. Durò un’ora circa: al secondo fiumiciattolo che ci trovammo a guadare chiedemmo scusa al pandino, impostammo il navigatore e lungo un comodo asfalto si giunse senza ulteriori deviazioni ad Alghero.
Lì ci attendeva la sveglia più carica e attesa dell’intero viaggio. Ci eravamo riservati la chicca per gli ultimi scampoli di avventura. Un’ora di macchina, smaniosi di mettere il punto esclamativo a un road trip il quale elargiva svariate emozioni ogni singolo giorno. L’ansia dell’essere in ritardo, la frenetica ricerca di un parcheggio, giù per il porto alla ricerca del nostro amico catamarano che ci avrebbe portato tra i colori più incredibili dell’Asinara. La ciliegina era questa e doveva essere il botto, l’esplosione finale. Stintino, la pelosa, Covid, agosto. Elementi che alla luce di una nostra sommaria analisi faticavano a coesistere. Da lì la decisione di investire un po’ di euri in un’esperienza che potesse risolvere tale problema. Anziché vedere quel paradiso dalla spiaggia, immergerci in esso, perderci, coglierne tutte le sfumature più intime e profonde. Un’intera giornata a navigare tra acque imbarazzanti, a goderci una parte stupenda di mondo, in pochi. Ma si sa, le favole non sempre hanno un lieto fine e almeno un’inculata, in una vacanza, la si dovrà pur prendere. Ecco quindi che camminavamo agitati per la banchina cercando di individuare il nostro mezzo odierno. Incontriamo un’altra coppia, compagna d’avventura. Disperata ricerca, infausto esito. La rassegnazione giunse in ritardo di mezz’ora, quando un presunto amico del presunto skipper conferma l’assenza di quest’ultimo. Motivi personali. Gita saltata. Ci metto un poco a realizzare la cosa. Poi imprecazioni, a profusione, di ogni tipo. Immediata chiamata per il risarcimento. Imprecazioni, altre, altisonanti, ma non liberatorie, ahimè. Rassegnazione.
Giornata improvvisata, cercando di non dover sostituire nulla mentalmente, cercando di accettare l’imprevedibile, di farsi scivolare addosso e non marcire nella rabbia. Abbandonammo subito quell’angolo iper turistico muovendo verso zone più selvagge. Provvidenziali non tardarono a mostrarsi lungo la via intrapresa calette spopolate. Poca gente, mare calmo e un chiosco a dissetare i nostri animi ardenti. Manco a dirlo fu la giornata migliore di snorkeling dell’intero viaggio. Bagno, pesci, sole, birretta. Ripetemmo la sequenza un paio di volte in altre baie sino a rientrare verso arenili dai nomi più altisonanti ma meno convincenti. Un paio di tranci di pizza, spiaggia e tramonto. Sollazzo serale spensierato per Alghero, che è viva e vivace. Voglia che quel lungo mare, che prosegue tra le vecchie mura, culmina nel porto, per poi spingersi poco oltre, non finisca mai.
Continuo a pensare che un giorno gli ultimi ritagli di vacanza li trascorrerò rilassandomi, fra cocktail, libri e siesta. Tutto questo però, un giorno ben lontano. Non potevamo evitare l’ebbrezza dei 650 e passa scalini delle grotte di Nettuno. Discesa di prima mattina, visita guidata delle grotte e poi via, si risale, con il sole che ha già iniziato a picchiar duro. L’alternativa via mare non è stata neanche presa in considerazione. Escursione completa, da cima a fondo, e ritorno. Ne vale la pena. Gli sforzi della scalinata vengono rapidamente ripagati da un’impareggiabile offerta di pranzi mozzafiato, vista mare. Vien voglia di non alzarsi più, seduti a pancia piena, in mistica contemplazione.
Il nostro on the road terminò con le prime nuvole sarde, a far capolino l’ultimo giorno di scapigliata avventura. Quale meteo migliore per fare una capatina a Bosa, attirati dal fascino del borgo e dalla temperatura vivibile. Eravamo soddisfatti e felici; che dopo mesi di paura si potesse tornare a sudare tra le impervie salite di un borgo; che si potesse sostare in una piccola piazza nascosta e mangiare in un’osteria tipica; che si potesse ciondolare, gonfi di culurgiones e cannonau, verso l’antico castello e visitarne i resti. Bosa non mi ha tolto il fiato, se non per alcuni pendii. Non mi ha fatto gridare alla meraviglia, al di là di assurde classifiche tra i borghi più belli d’Italia. Bosa mi ha teneramente cullato. E’ stata la perfetta giornata per un affettuoso arrivederci.
Ogni ritorno da questa magica isola è sempre contraddistinto dal medesimo pensiero: quanto siamo fortunati a esser nati nell’ombelico del mondo. Un’ora di volo dall’oggetto di invidia di un intero planisfero.
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