Andalusia vol. I
Di calma, vento e spensieratezza
Agosto, 2017
Un’estate strana. Avevo deciso di non decidere. Non avevo voluto programma nulla. Le ferie sarebbero arrivate ed io mi sarei fatto trovare felicemente impreparato. Senza giustificazione. Scena muta dinanzi alle imminenti vacanze tanto sospirate, senza panico né rimorso, fiero del mio menefreghismo e della mia impreparazione. Sorridevo, sperando che l’improvvisazione sarebbe stata sinonimo di unicità.
A dire la verità, avevo con me qualcosa, avevo un sacco di “non”. Non volevo aggregarmi ad un gruppo già programmato. Non volevo dipendere da nessuno se non da me stesso. Non volevo fossilizzarmi in unico luogo e cedere passivamente a una routine da villaggio turistico. Lo zaino in spalla rappresentava il logico risultato alla somma dei miei non. La destinazione, o quanto meno un’idea di questa, non aveva contorni certi. L’Interrail era un opzione, più che valida, più che sognata. Avrebbe sicuramente soddisfatto quel bisogno di condivisione a cui la partenza era legata. Il biglietto era già li pronto nel carrello, salvo poi essere cancellato dal racconto di un amico, nel posto del cuore, davanti a una birra, compagna di importanti decisioni ormai da anni. Mi raccontò di sorrisi contagiosi, di anime selvagge e di gente rilassata che fa della disponibilità il proprio stile di vita. Mi conquistò. Cambiai idea e prenotai un volo di sola andata trasudando emozioni, contagianti, a tal punto che l’autore di quel racconto decise di riviverle accompagnandomi nel viaggio.
Due sole certezze, l’arrivo a Granada e il caldo torrido che ci avrebbe tenuto compagnia in quell’agosto. Per tutto il resto, avremmo improvvisato, giorno dopo giorno, non per forza insieme, avendo quale unico obiettivo girare a zonzo per l’Andalusia. Un po’ dove ci avrebbe portato il cuore, un po’ dove ci avrebbe attratto l’aria condizionata. Ero felice e camminavo a un metro d’altezza.
A riportarmi coi piedi a terra giunse puntuale il meteo il giorno della partenza, che nell’ordine, ritardò l’imbarco di un paio d’ore, mi costrinse altrettanto tempo ad aspettare il decollo imbrigliato sull’aereo e mi fece letteralmente cagare in mano quando l’impavida signora seduta al mio fianco, ad ogni sobbalzo, si faceva il segno della croce bisbigliando preghiere. Giusto quelle sei ore di ritardo. Atterraggio in procinto della notte, ostello, cibo e birra, ricerca di una serata, discutibili feste in bugigattoli, studenti erasmus troppo molesti, stanchezza, sonno.
Granada in un sol giorno non stupì, attirò poco l’attenzione. Come un primo appuntamento in cui chiacchieri piacevolmente, ti trovi bene, ti fai qualche illusione, salvo poi morire tutto in un “Magari ci vediamo un’altra volta”. Non seguirà mai quell’altra volta, lo sai benissimo. Temperatura rovente, come da previsione. Saliscendi, vicoli stretti, odori nordafricani. Tapas, vino e ombra per godere. Dovevamo essere in due ci ritrovammo in tre, almeno i primi i giorni. Le impervie vie del quartiere marocchino conducono ad un godereccio panorama. La vista della collina sulla quale capeggia l’Alahambra, accompagnata dalle corde di qualche chitarra, allieta anima e corpo. Voglia di birra e siesta. Giù per la cattedrale e le vie più turistiche per poi fermarsi in un’enoteca nella solita via infognata, meno battuta dal turismo, sperando possa regalare gioie. Incuranti della temperatura percepita, ci abbandoniamo a una degustazione di vini rossi locali dall’assurda gradazione, accompagnati da salumi e formaggi che facevano sudare e venir sete anche i muri. Pronti per girare belli allegri tra qualche altra via e buttarci su un pullman che ci avrebbe condotti a Nerja.
Un po’ meno di corsa, un po’ più tranquilli, a Nerja il primo e vero incontro con la cultura andalusa, autoctona. L’ospitalità, il volere far star bene il prossimo, il rinunciare a qualcosa verso qualcun altro. Non avevamo prenotato dove dormire e non eravamo neanche così propensi alla ricerca. Eravamo felici e allo sbaraglio. Un giro di chiamate favorì l’incontro di un conoscente, amico dopo qualche istante. Possedeva un vecchio camper in un parcheggio fronte mare, isolato, distante un paio di chilometri dalla città. Davanti alla spiaggia, in un luogo dimenticato da Dio, c’eravamo noi, stile Breaking Bad. Una lunga e scalza camminata scortata dal mare ci conduceva al singolare paesino nel quale in due giorni scarsi assaporammo la vera Andalusia, quella più verace, più viva, ma allo stesso tempo quella più comoda e più lenta. Fu un colpo di fulmine. Amai, e continuo a farlo a farlo tutt’ora, quella vita. Caotica e ritardataria. Gioiosa e disponibile. Sorpassata la zona turistica collocata sul lungo mare e addentratomi nel centro storico assaggiai per la prima volta i sapori del meridione spagnolo, autentico, quello che a stento parla altre lingue ma è contento nel renderti felice. Poca formalità, tanta qualità. Poca spesa, tantissima resa. Senza alcuna pretesa. Pescherie travestite da bistrot in orario serale, in cui ingurgitare crudi di ogni genere. Cortili, più che ristoranti, connotati da una grande brace nella quale vengono infilati spiedoni che arrostiscono sarde, polpi, calamari. A Nerja, vista la disponibilità e complici i prezzi, mi innamorai per la prima volta di quel mondo. Non uno di quegli amori semplici. Si rese necessaria un’arresa, dinanzi ai loro comodi, sempre e comunque, cosciente che la ricompensa però avrebbe ripagato più di quanto speso, in termini di tempo.
Abbandonato a malincuore il camper, nella sua desolazione fronte mare, zaino in spalla ci dirigemmo verso ovest. Camminata, Pullman, benedetta aria condizionata, Malaga, qualche ora. Passeggiai per la città un po’ frastornato: il caldo, lo zaino non proprio leggero e qualche eccesso alcolico delle serate precedenti iniziò a presentare il conto. Malaga mi attrasse, ma vinse la gentilezza di un altro conoscente, beccato per un saluto. “Vi presto la macchina per qualche giorno, non mi serve, andate a farvi un giro … Riportatemela per il fine settimana”. Ottimo, neanche il tempo di terminare la proposta e avevamo già il culo sulla zarra golf nera, diretti a occidente, sorpassando il turismo a noi poco incline di Marbella, Torremolinos e le tristi foto con le scimmie a Gibilterra. Ci dirigemmo verso Tarifa, patria di vento e surfisti.
Ero entusiasta di non programmare nulla, di vivere finalmente giorno per giorno, conscio che in quel periodo dell’anno, qualora non mi avesse salvato il mio faccino che chiedeva pietà, avrei dormito in spiaggia. Poco male, anzi… Non avevo luoghi in cui obbligatoriamente avrei dovuto piantare la bandierina, nessuna prenotazione che avrebbe interrotto il fluire improvvisato di quella vacanza, che iniziava a diventare qualcosa in più.
Capita spesso che il ricordo principale di alcuni viaggi non sia un tramonto o il silenzio di un mausoleo, ma una banale situazione, in luoghi ordinari. In questi casi spesso nessuna fotografia conserva l’immagine, ma come un tarlo, il pensiero è sempre vivido, acceso nella memoria. Accadeva in viaggio verso Tarifa, distributore di benzina ore tredici. Un paio di macchine davanti a noi. Nessuna fretta, regnava la calma, sovrana. Si aspettava, più o meno comodi. Terminato il rifornimento, la pompa veniva riposizionata e con passo flemmatico si entrava a pagare. Nel mentre, un caffè, una chiacchiera, uno sguardo al quotidiano sul bancone. Il tutto con l’auto ferma davanti alla pompa, a impedire il rifornimento del prossimo cliente. Nessun clacson, nessun urlo, nessun insulto. Attesa, priva di ansia e nervosismo. Rilassata e incondizionata attesa. Arriva il proprio turno, dopo parecchi minuti. Mi accingo, cercando di calarmi nella parte, limitando la frenesia dei movimenti alla quale inconsciamente sono portato. Vengo stoppato da una ragazza, avrà la mia età, una salopette dell’azienda petrolifera e un incredibile sorriso stampato sul volto. Comprendo che, terminata la sua pausa e tornata in servizio, mi avrebbe fatto lei il pieno. La venere di Botticelli griffata Persol. Ho passato forse mezz’ora alla pompa di benzina. Non ho sentito imprecazioni, grida isteriche, mugugni. Ho visto gente rilassata, felice, in armonia col mondo.
Abbandonato il piccolo quadretto al distributore, l’acutizzarsi del vento ci fa capire che siamo arrivati a Tarifa. Mega camerata in un ostello dominato da canotte e tavole di surfisti. Cena e serata nel centro storico, nella città vecchia, circondata da mura merlate. Tarifa è incontro e contaminazione, bellissimo miscuglio. Tarifa è colloquio tra mare e oceano, tra Europa e Africa, tra antiquariato etnico e famose griffe. Tarifa, la prima sera, nella sua vivace vita notturna è stata travolgente, lasciandomi l’impressione però che l’abitudine avrebbe presto stufato. Un po’ come i paté in gelatina il giorno di Natale: buoni sì, a Santo Stefano te li fai andare ancora bene ma i giorni successivi, anche basta. Proprio come il giorno di Natale, ci lasciammo andare, e Tarifa si fece trovare pronta per servirci un gran banchetto.
Il caldo vento di provenienza marocchina garantiva una piacevole sveglia durante la colazione in terrazza. Un rapido sguardo al costo di qualche traghetto per Tangeri, ma conquistati dall’atmosfera del luogo, dalle mute appese ovunque, impegnammo le nostre tasche per qualche ora di lezione di kite surf. Una robusta ragazza tedesca dovette dedicarsi a due italiani, che non si prendevano per nulla sul serio, cercando di impartire lezione in spagnolo a uno e in inglese all’altro. Non un gran successo, né noi come kite surfers, né il dialogo bilingue con la zia crucca. Poco male. Era la cornice la vera poesia. Tre strisce verticali. Il Blu dell’oceano, punteggiato dai colori vivaci delle vele. La distesa sabbiosa, centrale. A completare, la banda verde della pineta, nella quale centinaia di van si erano posizionati, fronte mare. Diverse nazionalità accumunate da un comune desiderio, vento e onde.
Il sole perdeva la sua forza, il cielo si tingeva di rosso e la musica dei ciringuiti sulla spiaggia si alzava di volume. La golden hour. Ho sempre amato il momento del tramonto: la giornata idealmente scollina, i volti si rilassano, le menti si liberano. Gli sguardi si perdono nel rinfrangersi delle onde. Tra cocktail e birre ghiacciate aleggia un senso di libertà. Si lasciano andare pensieri. Ci si abbandona, a nuovi incontri, nuove amicizie. Anticamera della serata, è un momento magico e chi lo nega, son convito sappia di mentire a se stesso. Tarifa ci offrì nuovamente una grande serata, una di quelle belle, liberatorie, che desideri non abbia fine. Una serata di festa, che il giorno dopo, con gli occhi gonfi e il mal di testa, un poco maledirai.
Iniziavo ad avvertire il bisogno di una contropartita, un’inversione di marcia rispetto alla vitaiola atmosfera, al felice ozio tra tavole e vento. Urgevano momenti di vita più autentici, culturali e possibilmente meno turismo. Occorrevano anche una chiave e un crick: gomma bucata, alle due del pomeriggio, sotto quaranta gradi, su una strada deserta. Avevamo dato un rapido sguardo a guida e mappa. Il desiderio di abbandonare la mondanità per qualche giorno condusse i nostri pensieri verso alcuni puebli bianchi, non troppo lontani, che potessero rappresentare una parentesi aderente alla ricerca. Punti color avorio disseminati qua e là. Piccoli paesini, con il loro centro storico formato da strade strette e sconnesse. Brama di incontrare pescatori, artigiani, vignaioli, qualcuno che avesse una storia da raccontare. Voglia di assaporare le radici del meridione spagnolo, di quel mondo torrido che lento e gioioso procede. E fu così. Puntammo il dito verso nord, verso Vejer de la Frontera. Senonché eravamo ancora lì, sul ciglio della strada, a domandare aiuto. Provvidenziale, non tardò. Avevo sviluppato un’incredibile fiducia nell’altruismo andaluso. Passò un simpatico tizio che non si voltò dall’altra parte. Impegnò il suo credito telefonico in favore di due scapestrati sconosciuti e in una decina di minuti risolse il nostro problema. Touché.
Senza badare a orari e impegni camminavo privo di meta scegliendo le stradine che più mi attiravano. Venivo adescato dal vociare all’interno di taverne, circoli dove anziani giocavano a domino e commentavano in maniera chiassosa le notizie appena apprese dal telegiornale. Ordinavo una birretta e dal vecchio bancone in legno scuro osservavo semplici scene di vita quotidiana. Mi spostavo poi in direzione di artigiani locali, ammirando i loro piccoli laboratori dai quali uscivano eterogenei profumi. Finivo, immancabilmente, nei mercati, mia grande passione, spulciandoli in ogni singola bancarella, facendo tre volte il giro completo prima di decidermi presso chi acquistare. Il vicino oceano Atlantico ricolmava i bancali con pesce di altissima qualità, per lo più crudo, a prezzi irrisori. Mangiai tonno per giorni, a qualsiasi ora, non ne potevo fare a meno.
Da un pueblo all’altro, respirando colori e note diverse. Il fascino di questi piccoli borghi fa sì che il turismo li conosca, ma nonostante fosse altissima stagione, rimanevano comunque meno caotici delle vicine località balneari. Giungemmo in un tardo pomeriggio a Mjas, passeggiando spensierati, attirati da un cortile nascosto nel quale cenammo, tardando tra musica dal vivo e vino locale. Bussammo a qualche porta, parecchie a dire la verità. Quella sera però non ci fu preghiera capace di smuovere alcun animo. Mesti prendemmo la macchina, in direzione di Malaga, alla ricerca di un parcheggio nel quale dormire qualche ora. Nonostante la stanchezza, poco importava non avere un tetto e materasso per la notte. Spiaggia e macchina erano valide alternative, la mite temperatura un’ottima compagna. Il giorno seguente non avremmo dovuto spaccarci la schiena: stanchezza e dolorini potevano essere sopportati.
… (continua)
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